E’ bastato poco. Una chiacchierata durante un engagement e ho subito capito quale sarebbe stata la meta del mio viaggio.
Quello che so fare meglio è raccontare attraverso le foto e quello che sa fare meglio la mia compagna di viaggio ( Giovanna ) è scrivere. Allora proviamo a raccontarvi la nostra avventura, le nostre emozioni con questo connubio: io alla macchina fotografica e lei alla macchina da scrivere.
Sono le sei del mattino, ricordo il peso dei bagagli, l’emozione per la partenza e il rumore della macchina ad aspettarmi. E tutto è iniziato con quel rumore. Si parte, 4000 km ci attendono. La nostra meta Croazia e Bosnia, tra natura, storia, cultura, cibo, odori, nuove emozioni e quel rumore ci accompagnerà per tutto il viaggio.
Abbiamo deciso di partire all’indomani di un matrimonio, Guglielmo era stanco e allora gli ho concesso qualche ora di sonno. Dopo una breve colazione mi sono messa alla guida verso la Slovenia per superare il confine, ancora con quella tiepida luce del mattino e quella brezza che precede le ore afose di agosto.
Strade, paesaggi sono ancora così familiari, finché giunti a Trieste, decidiamo di fermarci per una piccola merenda. Da lì l’idea di addentrarsi in un paese sconosciuto si concretizza.
Inizi a sentirti disorientato dai cartelli stradali scritti in un’altra lingua, gli occhi strabuzzano e provi a leggere ridendo del buffo suono che ne viene fuori. Ti disorientano anche i maialini che girano sul grill sul ciglio della strada lungo tutta la Slovenia, anche se poi a furia di code e maialini ti assale l’acquolina e cedi.
Il disorientamento lascia spazio alla voglia di esplorare, conoscere, ogni cosa avrà il sapore della prima volta.
Così superato il confine ed entrati in Croazia, decidiamo di pranzare in uno dei tipici ristoranti lungo il ciglio della strada ( Savic ). Sembra di tornare indietro nel tempo, la macchina del caffè all’ingresso è ancora quella che si usava da noi negli anni ’90. Ha iniziato a piovere e penso subito che quella macchina del caffè con il suo rosso sgargiante contrasti con il grigio del cielo.
Ci accomodiamo sotto la veranda e mentre scorrevamo il menù, gli occhi si guardavano attorno stupiti per ogni semplice cosa. Ricordo l’imbarazzo nel non riuscire a distinguere l’olio dall’aceto perché hanno lo stesso colore, bianco. Riderci su e chiedere alla cameriera con il suo foulard in testa forse troppo piccolo per lei e la sua magliettina rosa sgargiante, con un sorriso un po’ sgangherato ma che lascia trasparire tutta l’accoglienza che avremo poi ritrovato lungo tutto il nostro viaggio.
Ripartiamo alla volta di Rastoke, il villaggio dei mulini ad acqua.
Davanti ai nostri occhi un villaggio di casette e ponti di legno.
Il nostro appartamento dominava questo bellissimo paesaggio ed era immerso in un meleto cornice perfetta per quelle notti. Il rumore delle cascate pervadeva l’interno dalla camera. Un’atmosfera quasi perfetta per concedersi un attimo di riposo. Ma l’adrenalina era ancora tanta e poi la nostra padrona di casa ci aveva parlato di un fiume dove poter fare il bagno e non abbiamo resistito.
Indossati i costumi, ci siamo incamminati alla scoperta del villaggio. Perduti tra le casette dai tetti spioventi e i gerani colorati, con l’acqua a fare da guida al nostro cammino siamo arrivati alla spiaggia del fiume Korana. La tranquillità respirata fino allora è soppiantata dal chiacchiericcio e risate della moltitudine di persone che affollavano il fiume. Famiglie, amici, coppie a prendere il sole ma soprattutto a fare i tuffi dal vecchio trampolino sul versante opposto del fiume.
Sembra un luogo fuori dal tempo eppure un luogo così attento alle necessità di tutti, un trampolino per il divertimento e una rampa per facilitare l’ingresso ai disabili.
Alla fine non siamo stati così coraggiosi e abbiamo lasciato i tuffi agli esperti, noi ci siamo concessi un riposino sulle sponde del fiume.
Giunta la sera, dopo una lunga doccia, abbiamo deciso di tornare nel villaggio e cercare qualcosa con cui rifocillarci. In realtà siamo finiti dentro una specie di festa dell’unità croata. Con tanto di popcorn ci siamo seduti su una panchina a osservare affascinati la gente attorno a noi che si divertiva tra luna park e musica balcanica suonata da un gruppo locale dal vivo.
La tappa per il giorno successivo erano i laghi Plitvice per cui non ci siamo lasciati sopraffare dalla baldoria. Bisogna essere riposati per affrontare il lungo percorso che ci attendeva.
Di fatti i laghi presentano un percorso di 18 km percorribili grazie ai sentieri e le passerelle di legno che corrono sull’acqua e costeggiano le meravigliose cascate. A contornare le meravigliose distese di laghi e cascate, si trovano tra le orchidee più belle al mondo e piante carnivore, una fitta vegetazione in cui perdersi e ritrovare il contatto con la natura dopo un anno d’intenso lavoro in città.
Nonostante la moltitudine di gente a metà mattinata siamo riusciti a trovare un piccolo angolo di paradiso tutto per noi affittando una barchetta e concedendoci un’oretta nel bel mezzo del lago principale. Tra l’impaccio e le risate inziali per la nostra andatura un po’ goffa, abbiamo lasciato che le onde ci trasportassero e abbiamo sostato all’ombra degli alberi che costeggiavano la riva dedicandoci un attimo di pausa dai chilometri che ancora ci attendevano alla fine del percorso. Alla fine del quale ci siamo concessi un bel gelato che ci ha subito fatto tornare bambini, portandoci alla mente i vecchi gelati della Sansone.
Per tornare al parcheggio siamo ridiscesi con un pulmino a vagoni. Saliti in un religioso silenzioso per la stanchezza, ci siamo goduti il panorama dai finestrini guardando al percorso appena affrontato e assaporando una prospettiva diversa.
Tornati al nostro villaggio, abbiamo scelto di cenare in uno dei migliori e caratteristici ristoranti, Petro. Ad accoglierci un’ambientazione surreale, immersi nella natura con il rumore del fiume ad allietare la serata e le trote a nuotare in una vasca accanto al tavolo.
All’indomani siamo partiti alla volta di Banja Luka, ci addentravamo verso la Bosnia. Non sapevamo cosa ci aspettasse, questa meta è stata decisa all’ultimo. Dopo tanti anni andavamo a incontrare una vecchia amica che avevo ospitato in Italia, dopo pochi anni dalla guerra in Bosnia. Le emozioni erano tante.
Lungo tutto il viaggio siamo rimasti affascinati dal paesaggio, dapprima campi quasi deserti dal color giallo paglierino e poi siamo stati sommersi dalle imponenti rocce delle montagne e sotto noi distese di fiumi a scorrere prepotenti nei loro corsi.
Al confine tra la Croazia e la Bosnia la tappa dell’avventura. Avevamo letto di una base militare abbandonata, la base militare di Zeljava e incuriositi da tutto quello che avevamo letto e visto dalle foto di altri viaggiatori abbiamo deciso di fermarci anche noi.
E’ un luogo ancora sconosciuto, avvolto nel mistero. Circondato ancora da campi di mine antiuomo, bisogna essere molto prudenti nell’addentrarsi e non abbandonare mai i sentieri.
Al nostro arrivo erano subito evidenti i resti dell’aereo Douglas C-478B Dakota, quasi ormai sommerso dai rovi e dalle erbacce. Non abbiamo resisto, siamo scesi dalla macchina e abbiamo iniziato ad avvicinarci, finché non ci siamo accorti di una scala, fatta alla meno peggio, adagiata sull’ala e siamo saliti. Dentro è tutto surreale. La carcassa è stata vittima dello sciacallaggio ed ormai priva di qualsiasi cosa. Chiunque è entrato ha lasciato un segno, l’aereo è tempestato di adesivi che fanno da cornice alla moltitudine di segni di proiettili.
Dopo abbiamo iniziato ad addentrarci alla ricerca dei tunnel ma in realtà ci siamo ritrovati tra i casotti dell’esercito, autobus ribaltati, segni di bombe esplose all’improvviso che avevano stravolto la rigida vita della base. Ed ecco poi arrivare una vera pattuglia della polizia. Ci chiedono cosa ci facciamo e dopo aver capito che volevamo solo dar un occhio e magari scattare qualche foto e soprattutto dopo tante raccomandazioni ci hanno scortato fino ai tunnel che cercavamo. Eravamo proprio al confine tra Croazia e Bosnia sulla pista dei vecchi aerei da guerra.
Banja Luka è stata la meta di un incontro, di un ritrovarsi dopo anni ma anche di nuove amicizie. Una serata di confronti, ricordi e racconti, non solo del tempo trascorso insieme ma grazie a Valentina e suo marito abbiamo scoperto dettagli degli anni bui della guerra, delle loro sensazioni, reazioni. Birra e cibo in quantità hanno fatto da contorno alla convivialità.
E’ stato poco il tempo trascorso qui con loro, l’indomani ci attendeva un’altra meta, Sarajevo. Ma prima ci siamo concessi l’ultima colazione con Valentina. Se pur titubanti, dato che in Bosnia non esiste la colazione al bar, la colazione è religiosamente made in home e al bar trovi solo caffè, ci siamo lasciati guidare da lei. Siamo finiti dentro un ristorante alle 7 del mattino, sembrava così strano. Il menù non era invitante quando al mattino hai solo voglia di un buon vecchio cappuccino e invece ti ritrovi a leggere Ćevapčiči (il piatto nazionale bosniaco simile al Kebab con cui ci saremo sfamati per i giorni successivi), bacon, uova, etc. E allora ci siamo messi a leggere il menù dei dessert, era la nostra unica chance.
Lasciata Valentina in un lungo e caldo abbraccio, con la promessa di incontrarci presto siamo ripartiti.
Sarajevo è la tappa più toccante e profonda del nostro viaggio. Immersi nel caos di una viabilità scatenata. Tra autisti, taxisti e tram vecchi siamo riusciti a farci strada e a trovare il nostro appartamento che si trovava sulla parte più alta della città. Ma non era bastato affrontare il traffico. Ora toccava affrontare le vie strettissime su in cima dove la gente in realtà circola con qualsiasi mezzo possibile e immaginabile fregandosene della dimensione delle strade, ovviamente a doppio senso. Tra la stanchezza per il viaggio e il caos eravamo veramente distrutti, carichi dei nostri mille bagagli, parcheggiata la macchina, abbiamo iniziato a incamminarci verso l’appartamento.
Si chiude la porta e tutto il caos sparisce come nel nulla. Siamo alle spalle del minareto, una piccola fontana all’ingresso ci rasserena, forse ci riporta alla mente la pace respirata nel primo villaggio. La padrona di casa ci accoglie e ci invita ad accomodarci sulla terrazza. Finito l’ultimo gradino il fiato si ferma un attimo e non per la fatica. Un paesaggio mozzafiato, dominavamo tutta la città e lì abbiamo sorseggiato il nostro caffè turco godendoci il tramonto sulla città.
Sarajevo dalla notte al giorno è una città sempre in movimento che sa cambiare aspetto ad ogni ora del giorno ma la cosa che stupisce di più e che nonostante la moltitudine di gente che la abita, che la visita si respira una calma surreale, come se dopo tanto caos, dolore ora la città pretendesse silenzio ma soprattutto rispetto. Lì convivono ad oggi quattro religioni eppure non appena parte la preghiera dal minareto tutti i locali abbassano la musica, non importa di che religione o etnia tu sia, il silenzio prende il sopravvento e la preghiera che ne esce fuori ti attraversa dentro.
Nella capitale si respira ancora la guerra, in ogni spazio verde della città c’è un cimitero in cui si legge chiaramente sempre la stessa tragica data 1993. Per la città le rose di Sarajevo a ricordare i tragici avvenimenti e forse rappresentano anche la speranza che tutto quel sangue non sia più versato. Un altro grande esempio rimasto prepotente a ricordare quel devastante scenario sono i resti della Sarajevo olimpionica.
Saliti sul monte Treevic siamo andati a scovare, a duemila metri di altezza, la pista abbandonata da bob.
Dopo dieci anni dalla fine delle Olimpiadi quei luoghi divennero lo scenario di sangue e morte. Ogni struttura fu utilizzata come postazione bellica. I boschi che fino a poco tempo fa erano stati scenario dei giochi che per eccellenza rappresentano la pace, la gioia e la convivenza tra etnie differenti divennero il palcoscenico di uomini in guerra tra loro. Le piste, dopo che la montagna fu cosparsa completamente di mine, divennero l’unico viadotto sicuro da percorre per evitare di non finire su una mina. Ancora oggi se penso alle sensazioni che mi pervadevano mentre percorrevamo le piste, frastornata dagli sgargianti colori dei murales che ora fanno da ornamento, pensavo a quale uomo aveva deciso di trovare riparo lì e se mai era riuscito a trovare pace arrivando nella Bosnia libera.
Alla sera, dopo ogni giorno passato così intensamente fra le vie della città, un grande incontrò rimarrà nel nostro viaggio. Un uomo dall’incredibile estro, ricordo ancora i suoi pantaloncini estremamente corti, la sua camicia rosa tutta sbottonata da cui apparivano evidenti tutti i suoi ornamenti, che subito dopo la piazza principale ha aperto una teeria, Theahouse Dzirlo. Ha esaudito il mio desiderio di accomodarmi proprio fuori sul terrazzino per continuare ad ammirare quella città che mi ha rubato il cuore. Parla italiano, ci riempie di racconti e aneddoti ma soprattutto ci da l’opportunità di assaggiare il salep. Bevanda lasciata dagli ottomani alla città di Sarejevo, a base di latte caldo ma dalla consistenza strana simile alla schiuma del nostro cappuccino ma più denso, con un estratto di orchidee e cannella e se non l’avessimo assaggiata avremmo potuto ritrovarla solo in Tunisia e ce ne saremmo pentiti per sempre.
Lasciandoci alle spalle tre giorni in questa meravigliosa città siamo riparti.
Ad attenderci Mostar, la città dei grandi contrasti. Non appena arrivati in città un vecchio albergo che raccontava ancora il dolore e la rovina della guerra. Ai semafori bambini serbi, veramente troppo piccoli, a far elemosina. Figli probabilmente di altri serbi che tra le vie ancora devastate della città cercano con prezzi assurdi di farti lasciare l’auto in posti saturi dai mille turisti che forse per la fretta di buttarsi dentro il centro della città non si sono nemmeno accorti del parcheggio custodito con telecamere a soli due euro, per tutto il tempo che vuoi, a confronto dei 10, sia che tu stia solo per cinque minuti o un’ora, chiesti dai parcheggiatori abusivi.
Mostar è stata tra le città più bombardate tra le città bosniache durante la guerra in Bosnia. Per secoli fu una città multietnica, a oggi mostra i segni della guerra e ha abbandonato la sua pacifica convivenza per mostrarsi in tutta la sua divisione geografica dei gruppi etnici. Abbiamo, infatti, scoperto che parti della città non sono frequentate da alcuni gruppi etnici per rivalità che ancora si trascinano. Quel rispetto trovato qualche chilometro prima non si respira più. Quando il minareto inizia a diffondere la preghiera, nessuno cede, la musica resta alta così come le risa e gli schiamazzi.
Mostar nel suo centro si presenta come una sfarzosa bomboniera che contrasta totalmente con lo scenario che lo contorna. Simbolo del rinnovamento bosniaco, che ha saputo modificarsi e mantenere intatte e valorizzare le sue attrattive: la Città Vecchia (Stari Grad), le moschee e le chiese cattoliche, quelle ortodosse e il suo ponte (Stari Most).
Passeggiando tra i ciottoli bianchi e lucidi, circondati dalla valle del fiume Neretva, dal colore cristallino, giungiamo allo Stari Most, dove abbiamo avuto la fortuna di vedere i tipici tuffatori che dopo aver chiesto un piccolo contributo per l’emozionante spettacolo che da lì a poco concederanno ai loro spettatori, si tuffano da 27 metri nelle gelide acque del fiume.
Purtroppo abbiamo anche scoperto che Mostar è la città più calda d’Europa e con i suoi 46 gradi ci ha costretto in casa con la buon vecchia aria condizionata per qualche ora.
Mostar è stata l’ultima tappa della Bosnia da qui abbiamo ripreso il nostro rientro attraverso la Croazia. Avremmo voluto concederci tre giorni al mare per rilassarci e metabolizzare un lungo e intenso viaggio. Infatti avevamo deciso di fermarci per tre giorni a Dubrovnik. Profondamente delusi dalla commercializzazione della città non abbiamo resistito e dopo due giorni siamo andati via alla ricerca di un angolo in Croazia che ci ricordasse ancora la tranquillità e il contatto con la natura che avevamo trovato in Bosnia.
Riprendiamo di fretta e furia il nostro viaggio, con i soldi risparmiati a Dubrovnik, ci siamo fermati a Omis, una piccola città della Dalmazia centrale, tra Spalato e Makarska alla foce del fiume Cetina. Fiume in cui ho finalmente concesso a Guglielmo di fare rafting (immaginateci voi a fare rafting).
Stanchi dalla giornata abbiamo comunque deciso di tornare in Italia, a cavallo del ferragosto non volevamo trovarci immersi nel traffico delle partenze delle vacanze di altri viaggiatori. E’ basta una notte tra cambio autista, mille caffè, canzoni cantate a squarciagola e alla fine siamo tornati a casa.
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